Seminario Nazionale del Circolo Bateson

Parco di Aguzzano - Roma 12-13 giugno 2010

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MeDea dal 1997: che cosa (non) è cambiato?

di
Paola Musarra
1.Che cosa si proponeva MeDea

Quando un gruppo di donne nel 1997 creò MeDea, un sito non profit, un sito di riflessione, il proposito era quello di aiutare le donne ad appropriarsi degli strumenti necessari per diventare protagoniste - e non (e non solo) - passive consumatrici di fronte ai profondi e continui mutamenti che l'evoluzione tecnologica proponeva (imponeva ) alla società.

Si pensava che una presenza incisiva delle donne in Rete avrebbe consentito, grazie a uno sguardo di genere, di diffondere una cultura "sensibile alle differenze" (con tutto ciò che questa espressione comporta), riducendo, se non addirittura eliminando, il gap tecnologico tra maschi e femmine, molto rilevante in Italia.

In tal modo sarebbe stato possibile "dare voce" anche a quelle donne e a quelle culture che non trovano spazio e visibilità nei grandi media, promovendo la capacità di esprimersi e di comunicare attraverso il computer. Era "saggezza"? chiederebbe Bateson. No, era pura follìa. Diciamo che, seguendo la terminologia di Bateson, era una "finalità cosciente"... folle.

2.Quali erano le mie aspettative

A questo progetto del tutto autonomo, sganciato da ogni appartenenza, mai finanziato da nessuno (le collaborazioni e il lavoro di redazione sono forniti a titolo gratuito), fui chiamata a partecipare sin dall'inizio.

Io avevo lavorato al computer già da molti anni, studiando a fondo l'interazione con la macchina e programmando da sola, in coppia, in gruppo, a scuola con i miei alunni. Dal 1995 (data del mio pensionamento) avevo cominciato a navigare in Rete e a studiare il codice HTML per realizzare piccoli ipertesti.

Portavo nella redazione di MeDea il mio entusiasmo e la mia curiosità per il mondo in continua evoluzione della tecnologia, così estraneo alla mia formazione linguistico-filologico-letteraria.

Ma proprio gli studi di linguistica mi avevano spinto a cercare una risposta non banale alla domanda "Quale lingua per lo schermo?".
Ho sempre creduto nella qualità della scrittura per il computer, una scrittura inquieta, coinvolgente, pluridimensionale, liberata dagli accademismi ma al tempo stesso limpida, sorvegliata, argomentata, responsabile e consapevole: una scrittura meditata insomma, adatta ad un sito di riflessione come Medea (volendo seguire Bateson, potremmo dire una scrittura che ospita al tempo stesso "rigore e immaginazione"...).

Il mio era un atto di fede nei confronti della scrittura, che, proprio nel momento in cui c'era chi prevedeva che sarebbe scomparsa dalla Rete, sostituita da brevi messaggi e videoconferenze (i fatti poi mi hanno dato ragione: la scrittura non è scomparsa, anzi, anche se sulla sua qualità ci sarebbe molto da dire...).

La cultura francese mi aveva inoltre fornito gli strumenti critici necessari per affrontare nomadismi, trasversalità e deterritorializzazioni, per abbattere le paratie stagne tra i saperi/poteri disciplinari e soprattutto per desacralizzare il testo inteso come proprietà privata dell'Autore.

Mi attirava il sogno di Pierre Lévy (oggi sta elaborando nel suo "Laboratoire d'Intelligence Collective" un metalinguaggio capace di organizzare per concetti l'enorme massa di conoscenze globalizzate).

Proprio nel 1997 Pierre Lévy pubblicava Cyberculture, il suo rapporto al Consiglio d'Europa (Editions Odile jacob/Conseil de l'Europe) che riassumeva i suoi precedenti lavori, sugli alberi di conoscenze (con Michel Authier, Ed.la Découverte, Paris 1992) e sull'intelligenza collettiva (Ed. la Découverte, Paris 1994).

Con Cyberculture Lévy proponeva un nuovo rapporto con il sapere, più adatto agli spazi di comunicazione aperti dall'interconnessione informatica mondiale. E' un libro ancora attuale perché risponde ai dubbi e alle domande che ciclicamente si ripropongono di fronte all'esplosione tecnologica.

MeDea rappresentava dunque per me nel 1997 un osservatorio sensibile e privilegiato, perché mi offriva la possibilità di vivere in prima persona, di sperimentare sulla mia pelle le implicazioni culturali delle nuove tecnologie, lavorando in gruppo con altre donne.

Vediamo allora che cosa è successo in questi tredici anni.

3. Che cosa è/non è cambiato

Nel preparare questa relazione ho passeggiato a lungo nella pancia di MeDea. Sono rimasta molto colpita da alcune date e da alcuni temi trattati, che ora mi spingono a chiedermi provocatoriamente non solo che cosa è cambiato dal 1997, ma anche, e soprattutto, che cosa NON è cambiato, o comunque non è cambiato secondo i nostri desideri e le nostre aspettative,ma solo secondo le (nostre) più fosche previsioni.

Ho scelto alcuni punti sensibili da esaminare da vicino. Ovviamente, non è una lista esaustiva.

  • Primo punto. Per quanto riguarda la presenza delle donne in Rete che Medea auspicava potremmo quasi cantare vittoria. Sono molti oggi i siti egregiamente gestiti da donne. Lo dico con cognizione di causa perché ho partecipato più volte come giurata al Premio "DonnaèWeb" (MeDea era stata finalista nel 2004 nella sezione "Arte e Cultura") per segnalare i migliori siti programmati e animati da donne in tutti i settori (culturali, commerciali, amministrativi)...
    Ma la domanda che dobbiamo porci è la seguente: questa presenza delle donne in Rete è stata ed è veramente "incisiva"? Insomma, ha veramente spostato gli equilibri? Si è davvero diffusa una cultura "sensibile alle differenze"? Sono rappresentati adeguatamente i reali interessi delle donne?
  • Secondo punto. Chiediamoci adesso se le donne “normali”, cioè le donne di tutti i giorni, si sono veramente “impadronite degli strumenti” per essere protagoniste nel mondo della tecnologia. Che cosa notate attorno a voi (a parte le giovanissime, naturalmente)? Com’è il rapporto delle donne con il computer? Se la cavano? Lo dominano? A me arrivano ogni tanto richieste di questo tipo: “uno di questi pomeriggi puoi venire da me a spiegarmi Internet?”
    Nel 1998-9 le donne raccontavano a MeDea nelle Infoperline i loro problemi con il computer. Beh, a volte ho l’impressione che tutto si riazzeri…
  • Terzo punto. E le professoresse?
    Su MeDea sin dal 2000 siamo state "dalla parte delle prof" con ricettine e consigli, per aiutarle a superare l'impatto con il computer e con gli altri artefatti tecnologici nella scuola. Ma quante di loro trovano oggi (è proprio il caso di dire, come nel film di Ozpetek, "non siamo più nel 2000") il tempo, il modo e la voglia di adeguarsi a quei nuovi strumenti che gli alunni dominano con tanta disinvoltura? Con disinvoltura e a volte, certamente, anche con superficialità, ma come si fa a consigliare un uso critico e razionale di uno strumento che non si conosce?
    Che cosa ha demoralizzato, che cosa ha demotivato le prof? Io qualche risposta l'avrei...
  • Quarto punto. Parliamo della scrittura in Rete, anzi, della qualità della scrittura delle donne in Rete, un argomento che, come ho già detto, mi sta molto a cuore e che da anni stiamo promovendo e incoraggiando su MeDea.
    Secondo voi, le donne si sono veramente liberate dalle pastoie del linguaggio accademico attraverso una "loro" lingua fatta di corpo?
    In realtà, quando devono parlare di "cose serie", le donne si adeguano piattamente alla scrittura maschile disincarnata, nel timore di non essere abastanza "scientifiche" (dimenticando quanto sia incandescente e trasgressiva la scrittura degli scienziati veri...).
  • Quinto punto. Parliamo adesso dell'economia e - ahimé - del lavoro. Nel 1999 su MeDea Marina Galimberti ci parlava del suo impegno per far applicare la Tobin Tax, l'imposta sulle transazioni finanziarie; nello stesso anno io vi segnalavo il profetico libro di Viviane Forrester, L'Horreur économique (Fayard 1996) e Jacopo Barberi ci costringeva a riflettere, in prospettiva, sulla inevitabile soppressione di innumerevoli posti di lavoro... Sui disagi e le discriminazioni vissuti dalle donne, vi invito a leggere le riflessioni di Sara Balzano e Loretta Ramazzotti e il magistrale contributo di Angela Frulli Antiocchieno, ancora in corso di pubblicazione su MeDea, sui "Mestieri di donne tra Ottocento e Novecento".
    Quanto c'è ancora da lottare... Vi assicuro che aver fatto le Cassandre non ci dà nessuna soddisfazione, avremmo preferito di gran lunga sbagliare certe previsioni.
  • Sesto punto. Vorrei parlare adesso di due libri e di due donne: Lorella Zanardo (Il corpo delle donne, Feltrinelli, Milano 2010) e Michela Marzano (Sii bella e stai zitta, Mondadori, Milano 2010). Io apprezzo molto il lavoro della Zanardo, il suo video e soprattutto il suo impegno nelle scuole con giovani e insegnanti. E mi è piaciuto molto il libro della Marzano, con quel suo argomentare problematico alla francese, per la delicatezza con cui tratta temi sensibili come la maternità e la vecchiaia, pur non essendo né madre né nonna. E non voglio assolutamente dimenticare l'importante lavoro che l'UDI sta da tempo svolgendo su questo stesso tema. Ma riflettiamo: dopo tanti anni, tante lotte e tanti discorsi sulla dignità del corpo delle donne, come ci siamo ridotte?
  • Settimo punto. E le donne albanesi? Nel 2001 abbiamo lanciato su MeDea il "Progetto Albania - "Per una nuova immagine delle donne albanesi" (un progetto totalmente autogestito, senza nessun contributo o finanziamento).
    Anna Rosa Iraldo ha intervistato pe MeDea a Tirana giornaliste, scrittrici, intellettuali, donne impegnate nel sociale, proprio nel momento in cui le Albanesi venivano identificate dall'opinione pubblica solo come prostitute o Kosovare dolenti. Nel frattempo io segnalavo l'arte, la musica e la poesia albanesi che si facevano conoscere ed apprezzare in Italia. Ebbene, alcuni mesi fa le donne albanesi (in prima linea la scrittrice Elvira Dones e le giornaliste del Bota Shqiptare) sono state costrette di nuovo a difendere la propria dignità a causa di una battuta inopportuna e volgare rivolta ad un politico albanese: "Mandateci le vostre belle ragazze..."
Basta. voglio concludere questo mio viaggio sconsolato con due osservazioni.
  1. La prima riguarda la libertà dell'informazione. Nel 2003, in occasione della presentazione del video di Corrado Veneziano sul bombardamento della TV di Belgrado e la morte di sedici giornalisti, vi segnalavo su MeDea che Lucio Caracciolo definiva embedded, "incapsulate", le comunicazioni dei reporter al seguito degli eserciti durante i conflitti.
    Embedded, cioè sprofondate dentro, occluse, recluse. In una parola, "imbavagliate".
    E di quante altre cose non si potrà dare notizia?
  2. La seconda osservazione conclusiva riguaarda la guerra. Una certezza l'abbiamo: se c'è qualcosa che le donne NON vogliono e non hanno voluto MAI è proprio la guerra.
Ricordate? NOT IN MY NAME...
E oggi? Oggi pacifista per alcuni vuol dire terrorista. E dei bambini morti e feriti in Afghanistan non si deve parlare.
Io sto con Gino Strada.
http://www.medea.provincia.venezia.it/