1.Che cosa si proponeva MeDea
Quando un gruppo di donne nel 1997 creò
MeDea, un sito non profit, un sito di riflessione, il proposito
era quello di aiutare le donne ad appropriarsi degli strumenti necessari
per diventare protagoniste - e non (e non solo) - passive consumatrici
di fronte ai profondi e continui mutamenti che l'evoluzione tecnologica
proponeva (imponeva ) alla società.
Si pensava che una presenza incisiva
delle donne in Rete avrebbe consentito, grazie a uno sguardo di genere,
di diffondere una cultura "sensibile alle differenze" (con tutto ciò che
questa espressione comporta), riducendo, se non addirittura eliminando,
il gap tecnologico tra maschi e femmine, molto rilevante in
Italia.
In tal modo sarebbe stato possibile "dare
voce" anche a quelle donne e a quelle culture che non trovano spazio e
visibilità nei grandi media, promovendo la capacità di esprimersi
e di comunicare attraverso il computer. Era "saggezza"? chiederebbe
Bateson. No, era pura follìa. Diciamo che, seguendo la terminologia di
Bateson, era una "finalità cosciente"... folle.
2.Quali erano le mie aspettative
A questo progetto del tutto autonomo,
sganciato da ogni appartenenza, mai finanziato da nessuno (le
collaborazioni e il lavoro di redazione sono forniti a titolo gratuito),
fui chiamata a partecipare sin dall'inizio.
Io avevo lavorato al computer già da
molti anni, studiando a fondo l'interazione con la macchina e
programmando da sola, in coppia, in gruppo, a scuola con i miei alunni.
Dal 1995 (data del mio pensionamento) avevo cominciato a navigare in
Rete e a studiare il codice HTML per realizzare piccoli ipertesti.
Portavo nella redazione di MeDea il mio
entusiasmo e la mia curiosità per il mondo in continua evoluzione della
tecnologia, così estraneo alla mia formazione
linguistico-filologico-letteraria.
Ma proprio gli studi di linguistica
mi avevano spinto a cercare una risposta non banale alla domanda "Quale
lingua per lo schermo?".
Ho sempre creduto nella qualità della scrittura per il computer,
una scrittura inquieta, coinvolgente, pluridimensionale, liberata dagli
accademismi ma al tempo stesso limpida, sorvegliata, argomentata,
responsabile e consapevole: una scrittura meditata insomma, adatta ad un
sito di riflessione come Medea (volendo seguire Bateson, potremmo dire
una scrittura che ospita al tempo stesso "rigore e immaginazione"...).
Il mio era un atto di fede nei confronti
della scrittura, che, proprio nel momento in cui c'era chi prevedeva che
sarebbe scomparsa dalla Rete, sostituita da brevi messaggi e
videoconferenze (i fatti poi mi hanno dato ragione: la scrittura non è
scomparsa, anzi, anche se sulla sua qualità ci sarebbe molto da
dire...).
La cultura francese mi aveva inoltre
fornito gli strumenti critici necessari per affrontare nomadismi,
trasversalità e deterritorializzazioni, per abbattere le paratie stagne
tra i saperi/poteri disciplinari e soprattutto per desacralizzare il
testo inteso come proprietà privata dell'Autore.
Mi attirava il sogno di Pierre Lévy (oggi
sta elaborando nel suo "Laboratoire d'Intelligence Collective" un
metalinguaggio capace di organizzare per concetti l'enorme massa di
conoscenze globalizzate).
Proprio nel 1997 Pierre Lévy pubblicava Cyberculture,
il suo rapporto al Consiglio d'Europa (Editions Odile jacob/Conseil de
l'Europe) che riassumeva i suoi precedenti lavori, sugli alberi di
conoscenze (con Michel Authier, Ed.la Découverte, Paris 1992) e
sull'intelligenza collettiva (Ed. la Découverte, Paris 1994).
Con Cyberculture Lévy proponeva un
nuovo rapporto con il sapere, più adatto agli spazi di comunicazione
aperti dall'interconnessione informatica mondiale. E' un libro ancora
attuale perché risponde ai dubbi e alle domande che ciclicamente si
ripropongono di fronte all'esplosione tecnologica.
MeDea rappresentava dunque per me nel
1997 un osservatorio sensibile e privilegiato, perché mi offriva la
possibilità di vivere in prima persona, di sperimentare sulla mia pelle
le implicazioni culturali delle nuove tecnologie, lavorando in gruppo
con altre donne.
Vediamo allora che cosa è successo in
questi tredici anni.
3. Che cosa è/non è cambiato
Nel preparare questa relazione ho
passeggiato a lungo nella pancia di MeDea. Sono rimasta molto colpita da
alcune date e da alcuni temi trattati, che ora mi spingono a chiedermi
provocatoriamente non solo che cosa è cambiato dal 1997, ma anche, e
soprattutto, che cosa NON è cambiato, o comunque non è cambiato secondo i
nostri desideri e le nostre aspettative,ma solo secondo le (nostre) più
fosche previsioni.
Ho scelto alcuni punti sensibili da
esaminare da vicino. Ovviamente, non è una lista esaustiva.
- Primo punto. Per quanto riguarda la
presenza delle donne in Rete che Medea auspicava potremmo quasi cantare
vittoria. Sono molti oggi i siti egregiamente gestiti da donne. Lo dico
con cognizione di causa perché ho partecipato più volte come giurata al
Premio "DonnaèWeb" (MeDea era stata finalista nel 2004 nella sezione
"Arte e Cultura") per segnalare i migliori siti programmati e animati da
donne in tutti i settori (culturali, commerciali, amministrativi)...
Ma la domanda che dobbiamo porci è la seguente: questa presenza delle
donne in Rete è stata ed è veramente "incisiva"? Insomma, ha veramente
spostato gli equilibri? Si è davvero diffusa una cultura "sensibile alle
differenze"? Sono rappresentati adeguatamente i reali interessi delle
donne? - Secondo punto. Chiediamoci adesso se le donne “normali”,
cioè le donne di tutti i giorni, si sono veramente “impadronite degli
strumenti” per essere protagoniste nel mondo della tecnologia. Che cosa
notate attorno a voi (a parte le giovanissime, naturalmente)? Com’è il
rapporto delle donne con il computer? Se la cavano? Lo dominano? A me
arrivano ogni tanto richieste di questo tipo: “uno di questi pomeriggi
puoi venire da me a spiegarmi Internet?”
Nel 1998-9 le donne
raccontavano a MeDea nelle Infoperline i loro problemi con il computer.
Beh, a volte ho l’impressione che tutto si riazzeri…
- Terzo punto. E le professoresse?
Su MeDea sin dal 2000 siamo
state "dalla parte delle prof" con ricettine e consigli, per aiutarle a
superare l'impatto con il computer e con gli altri artefatti tecnologici
nella scuola. Ma quante di loro trovano oggi (è proprio il caso di
dire, come nel film di Ozpetek, "non siamo più nel 2000") il tempo, il
modo e la voglia di adeguarsi a quei nuovi strumenti che gli alunni
dominano con tanta disinvoltura? Con disinvoltura e a volte, certamente,
anche con superficialità, ma come si fa a consigliare un uso critico e
razionale di uno strumento che non si conosce? Che cosa ha demoralizzato, che cosa ha demotivato le prof? Io qualche risposta l'avrei...
- Quarto punto. Parliamo della scrittura in Rete, anzi, della qualità
della scrittura delle donne in Rete, un argomento che, come ho già
detto, mi sta molto a cuore e che da anni stiamo promovendo e
incoraggiando su MeDea.
Secondo voi, le donne si sono veramente
liberate dalle pastoie del linguaggio accademico attraverso una "loro"
lingua fatta di corpo? In realtà, quando devono parlare di "cose
serie", le donne si adeguano piattamente alla scrittura maschile
disincarnata, nel timore di non essere abastanza "scientifiche"
(dimenticando quanto sia incandescente e trasgressiva la scrittura degli
scienziati veri...).
- Quinto punto. Parliamo adesso dell'economia e - ahimé - del lavoro.
Nel 1999 su MeDea Marina Galimberti ci parlava del suo impegno per far
applicare la Tobin Tax, l'imposta sulle transazioni finanziarie; nello
stesso anno io vi segnalavo il profetico libro di Viviane Forrester, L'Horreur économique
(Fayard 1996) e Jacopo Barberi ci costringeva a riflettere, in
prospettiva, sulla inevitabile soppressione di innumerevoli posti di
lavoro... Sui disagi e le discriminazioni vissuti dalle donne, vi invito
a leggere le riflessioni di Sara Balzano e Loretta Ramazzotti e il
magistrale contributo di Angela Frulli Antiocchieno, ancora in corso di
pubblicazione su MeDea, sui "Mestieri di donne tra Ottocento e
Novecento".
Quanto c'è ancora da lottare... Vi assicuro che aver
fatto le Cassandre non ci dà nessuna soddisfazione, avremmo preferito di
gran lunga sbagliare certe previsioni.
- Sesto punto. Vorrei parlare adesso di due libri e di due donne: Lorella Zanardo (Il corpo delle donne, Feltrinelli, Milano 2010) e Michela Marzano (Sii bella e stai zitta,
Mondadori, Milano 2010). Io apprezzo molto il lavoro della Zanardo, il
suo video e soprattutto il suo impegno nelle scuole con giovani e
insegnanti. E mi è piaciuto molto il libro della Marzano, con quel suo
argomentare problematico alla francese, per la delicatezza con cui
tratta temi sensibili come la maternità e la vecchiaia, pur non essendo
né madre né nonna. E non voglio assolutamente dimenticare l'importante
lavoro che l'UDI sta da tempo svolgendo su questo stesso tema. Ma
riflettiamo: dopo tanti anni, tante lotte e tanti discorsi sulla dignità
del corpo delle donne, come ci siamo ridotte?
- Settimo punto. E le donne albanesi? Nel 2001 abbiamo lanciato su
MeDea il "Progetto Albania - "Per una nuova immagine delle donne
albanesi" (un progetto totalmente autogestito, senza nessun contributo o
finanziamento).
Anna Rosa Iraldo ha intervistato pe MeDea a Tirana
giornaliste, scrittrici, intellettuali, donne impegnate nel sociale,
proprio nel momento in cui le Albanesi venivano identificate
dall'opinione pubblica solo come prostitute o Kosovare dolenti. Nel
frattempo io segnalavo l'arte, la musica e la poesia albanesi che si
facevano conoscere ed apprezzare in Italia. Ebbene, alcuni mesi fa le
donne albanesi (in prima linea la scrittrice Elvira Dones e le
giornaliste del Bota Shqiptare) sono state costrette di nuovo a
difendere la propria dignità a causa di una battuta inopportuna e
volgare rivolta ad un politico albanese: "Mandateci le vostre belle
ragazze..."
Basta. voglio concludere questo mio viaggio sconsolato con due osservazioni.
- La prima riguarda la libertà
dell'informazione. Nel 2003, in occasione della presentazione del video
di Corrado Veneziano sul bombardamento della TV di Belgrado e la morte
di sedici giornalisti, vi segnalavo su MeDea che Lucio Caracciolo
definiva embedded, "incapsulate", le comunicazioni dei reporter al seguito degli eserciti durante i conflitti.
Embedded, cioè sprofondate dentro, occluse, recluse. In una parola, "imbavagliate".
E di quante altre cose non si potrà dare notizia?
- La seconda osservazione conclusiva riguaarda la guerra. Una
certezza l'abbiamo: se c'è qualcosa che le donne NON vogliono e non
hanno voluto MAI è proprio la guerra.
Ricordate? NOT IN MY NAME...
E oggi? Oggi pacifista per alcuni vuol dire terrorista. E dei bambini morti e feriti in Afghanistan non si deve parlare.
Io sto con Gino Strada.
http://www.medea.provincia.venezia.it/ |